Dalla patologizzazione del dissenso al controllo sui social: Enrica Perucchietti racconta la censura in Occidente
Da qualche tempo i principali motori di ricerca, integrati con l’intelligenza artificiale, sono in grado di rispondere alle nostre richieste direttamente, costruendo una risposta realizzata “pescando” dai vari siti web e contenuti presenti sui motori medesimi. L’utente, in questo modo, non deve neppure più fare la fatica di scandagliare i risultati resi dalla query, per individuare quello di suo interesse. Se, in questo modo, gli internauti più pigri possono permettersi di scivolare dolcemente tra le lenzuola della comodità, i rischi per il pensiero critico sono abbastanza evidenti. Soprattutto se i contenuti più “divergenti” rispetto al pensiero prevalente (magari perché più datati) spariscono dagli archivi. Già, ma perché sono stati cancellati? Ne ha parlato, senza cautele eccessive, nel suo recente (e come al solito eccellente) saggio “La censura nelle ‘democrazie’ del XXI secolo” (edito da Arianna Editrice) la brava Enrica Perucchietti.
La giornalista e scrittrice torinese, attualmente curatrice della rivista “Visione“, edita dall’omonima casa editrice, ha alle spalle un curriculum ricco di pubblicazioni e co-pubblicazioni di successo, uscite in Italia e in Francia e che l’hanno resa una voce autorevole e riconoscibile, tra cui: “Fake News”, “Cyberuomo“, “Gli oligarchi di Davos“, “Governo globale”, “La fabbrica della manipolazione“, “Unisex”, “La fabbrica dei bambini” e “False flag”. Tutte tematiche affrontate, tra gli altri, anche e soprattutto dal punto di vista della denuncia delle dinamiche di controllo da parte del potere politico ed economico (per lo più in ambito occidentale), che soffocano e condizionano pesantemente il giornalismo e la comunicazione, con frequenti e opportuni raffronti con gli scenari della grande letteratura distopica anglosassone (Orwell, Huxley e Bradbury).
Un fil rouge, quest’ultimo, che non manca neppure in questa sua ultima fatica, di cui diamo conto con qualche mese di colpevole ritardo. Sì, perché il libro è davvero uno scritto capitale per comprendere le più recenti dinamiche di controllo sociale che caratterizzano i nostri (difficili) tempi. Grazie a documentati riferimenti, l’autrice guida il lettore nell’esplorazione di un sistema di comunicazione che, dal giornalismo tradizionale ai social network, pur sotto un manto di libertà apparente, minaccia in maniera sempre più invasiva i principi di democrazia e libertà di pensiero, arrivando a una criminalizzazione o, addirittura, a una patologizzazione del dissenso. Così, tra gli intrecci dei poteri economico e politico e invasioni di campo spregiudicate (nel libro sono riportati come esempi i casi dei “Twitter files”, dell’arresto dell’amministratore delegato di Telegram, Pavel Durov e del famigerato “Russiagate” che condizionò la prima presidenza Trump) si dispiega uno scenario che, solo pochi decenni fa, sarebbe stato difficile associare all’Occidente liberale.
Non manca, tra le altre cose, un ampio riferimento a quel processo di “sterilizzazione linguistica” identificabile con il politically correct, che l’autrice non liquida (correttamente, a modesto avviso di chi qui scrive) come una follia contemporanea o una moda, ma che associa, in maniera assai più inquietante, a progetti di ingegneria sociale raccontati da opere di fantasia che, però e purtroppo, con il passare degli anni assumono sempre di più una sinistra luce profetica.