Dietro il più rigoroso moralista si nasconde sempre un peccatore impenitente. E spesso dietro il moralista si cela una grande insoddisfazione personale e l’incapacità di vivere con pienezza dei piaceri che la vita ci offre. Se il moralista è fortunato passa attraverso una stagione di dolore o malattia, di tragedia personale o familiare, che lo possa redimere dai suoi rancori che hanno allevato e fatto crescere i suoi pregiudizi. Insomma, è come quando si esce per la prima volta all’aperto dopo una lunga convalescenza. Anche una semplice passeggiata sotto il sole diventa un piacere intenso e raffinato.

Parabola, questa, che André Gide confeziona ad arte nel romanzo L’immoralista (letto nella versione di Garzanti tradotta da Eugenia Scarpellini). Quando Michel, il protagonista, perde il padre realizza l’ultimo desiderio del genitore sposando la cugina Marceline. Afflitto dalla tubercolosi lascia la Francia e gli studi storici per un viaggio in Nordafrica e Italia. Sotto il sole di Tunisi scopre i piaceri della gola e della carne, lasciando la moglie sempre più da sola nei suoi vagabondaggi notturni. La conquista della libertà edonistica coincide con il recupero fisico e quando è finalmente in forze decide di tornare in Francia dove lo attende una proprietà agricola da gestire e una cattedra all’università. La sua emancipazione dal dolore, però, coincide con il deperimento della moglie che muore di tubercolosi dopo essersi indebolita per un aborto spontaneo.

Una parabola lineare che prende le mosse dalle letture di Gide. Le tesi di Schopenhauer e Nietzsche, come anche le intuizioni di Oscar Wilde, diventano argomenti da confermare sul terreno della vita vissuta dal protagonista del romanzo. E la felicità e l’oraziano carpe diem si confermano le ossessioni del protagonista, già prepotentemente novecentesco (il romanzo è uscito in Francia nel 1902). Tanto è alto il valore affibbiato al piacere che lo scrittore sembra porre una frattura insanabile tra vita e arte. La felicità, secondo il protagonista di L’immoralista, non si può tradurre in parole. “Solamente ciò che la prepara, o ciò che la distrugge, si può raccontare”. Ecco perché, intuisce lo stesso Michel/Gide, “le opere migliori dell’uomo nascono immancabilmente dal dolore”. Ed è un assunto, questo, che grande fortuna ha avuto soprattutto nel corso della stagione romantica.

Gide, però, è già pienamente moderno. “La vita o la si vive o la si scrive”, suggerisce Pirandello a proposito di D’Annunzio. Un giudizio negativo nei confronti del Vate, coevo dell’autore de L’immoralista, e come lui impegnato nel tentativo di tradurre il vitalismo in descrizioni “esemplari”. Un giudizio negativo, quello dell’autore dei Sei personaggi perché parte dall’assunto che D’Annunzio non sia riuscito a conciliare la letteratura alla sua figura sociale di intellettuale. Il vitalismo del Vate, così come quello di Gide, sono innanzitutto carburante di un motore che mai si è spento e che mai è andato a pieni giri come nelle loro opere.